Quel sogno nel vento
Un allenatore e una squadra nati sconfitti, legati per sempre dall'esigenza di sognare
Un allenatore e una squadra nati sconfitti, legati per sempre dall’esigenza di sognare.
Il vento era ovunque. Arrivava dal mare grosso e si infilava nelle viuzze prendendone possesso: un invasore invisibile e rumoroso, impossibile da fermare. Ma il vento andava oltre, passava negli spifferi e raggiungeva le persone fin dentro al cuore. Spazzava ricordi e ne portava altri quasi mai colorati, molto spesso impalpabili come lui. Il vento scompigliò i fogli sul tavolo di Achille facendo cadere l’ennesima bolletta della luce che lui, fino ad un momento prima, stava osservando incredulo.
– 95 euro e come li pago questi? – disse Achille a denti stretti. Poi sorrise alla moglie che era entrata in salone e lo stava aiutando a raccogliere i fogli sparsi sul pavimento.
– Ehi che è quella faccia? Dai che è pronta la cena. Vieni.
Achille non aveva fame, mangiava per inerzia e per abitudine. Aveva tanti sogni da giovane ma ora se li era portati via il vento insieme al figlio e insieme al suo braccio destro.
– Ti tagliai la carne… – sussurrò la moglie. Ogni cosa era un ricordargli la sua colpa, il fatto di non essere riuscito a salvare Totò, come se il vivere senza un braccio non fosse già un monito perenne. Dover dipendere da qualcuno, dalla donna che amava, dalla madre di suo figlio, che lui, Achille La Rosa, aveva spinto su un motorino; che lui, Achille La Rosa; aveva mandato a giocare a venti chilometri da casa; che lui, Achille La Rosa, aveva cercato di estrarre dal groviglio di lamine rimettendoci un braccio.
Aveva cercato di spiegare alla moglie che Totò non poteva giocare nella sua squadra, perché il figlio di un Mister non è mai ben veduto specialmente in una squadretta di paese come la loro. Aveva cercato di spiegarle che era lì a mezzo metro da lui e lo aveva accarezzato piano fino a che non aveva visto il suo arto cadere e portarsi via la vita del loro tesoro. Aveva cercato, ma era rimasto in silenzio. Da quella morte erano sopravvissuti, ma il dolore era diventato presente: un amante che si dava ogni giorno sia all’uno che all’altra rendendoli sempre più lontani e alimentando recriminazioni che non venivano dette ma coloravano di nero le parole e le ore.
Achille aveva perso il lavoro e si era gettato anima e corpo sulla squadra di Calcio a 5 che allenava, che finanziava. Lì era lui d’aiuto a qualcuno e nessuno lo guardava male. I ragazzi gli davano tutto e lui ricambiava con la presenza continua, come quella di un… padre. La squadra andava forte. Dai Dilettanti Nazionali alla Lega Pro fino a giocarsi la promozione in B. Achille pagava tutto con i risparmi che non sarebbero serviti a nessuno, con l’assegno che riceveva per la sua disabilità, vendendosi la macchina che non guidava più e con la pensione minima. Tutti i sacrifici di una vita per quelli che erano i suoi figli.
– Mi proposero una cosa… – disse mentre masticava.
– Cosa? Non t’haiu capito. – rispose la donna seduta a mezzo metro da lui dall’altra parte del piccolo tavolo quadrato della cucina. Lo disse perché non le interessava sapere nulla del marito, nulla che non fosse il ritorno a casa di Totò.
Rimaneva con lui per dovere, perché è così che una moglie fa. Ma odiava tutto quello che riguardava quell’uomo, dal suono della voce al calore che c’era nelle lenzuola.
– Umm mi proposero di allenare a Catania… In serie A2.
– A tia? – Chiese così tanto per rispondere. Immediatamente pensò che magari così se ne sarebbe andato e non lo avrebbe più visto e provò, per la prima volta da anni, un barlume di speranza accendersi nel cuore.
– Guadagnerei r’i piccioli, parecchi piccioli. Quarantacinquemila.
– E allura picchì nun accetti? – Chiese lei senza nemmeno aver capito la cifra.
Sarebbero stai i primi soldi guadagnati da una passione. C’era nato allenatore e finalmente qualcuno si accorgeva del suo talento. Ma anche per questa cosa c’era un prezzo da pagare, un prezzo che sua moglie non avrebbe mai compreso.
Suonarono alla porta liberando Achille dal peso di un’ennesima risposta falsa.
– Mister andiamo. Vi passai a prendere! – La voce di Angelo era allegra e fresca come al solito e capace di scacciare via ogni brutto pensiero.
La squadra era tutta lì nel piccolo porticciolo del paese affollato di barche a vela e di qualche peschereccio. Erano tutti ragazzi tra i 15 ed i 19 anni pieni di entusiasmo e voglia di vincere. Li volle in cerchio e lui in mezzo.
– Domenica è l’ultima. Non ve lo devo ripetere ancora. Una vittoria significherebbe la serie B. Passeremo tra i grandi. I ragazzi di Barletta sono una buona squadra, lo sapete, ma voi siete migliori. Voi siete come questo vento… inarrestabili e lo dimostrerete a tutti, ma prima a voi stessi. Il prossimo anno potrebbe essere decisivo per alcuni di voi o per tutti voi.
– Siete dei bravi ragazzi che avrebbero potuto fare qualsiasi cosa e avete deciso di giocare a calcetto. Posso dire che ognuno di voi ha dato il massimo e grazie a tutti che siamo qui, che abbiamo una possibilità. Ognuno nel suo cuore ha un sogno, un desiderio; anche io ne ho uno. Domenica ce li giochiamo all in su noi stessi e, credetemi, non falliremo. E adesso corsa. Dieci volte il molo alternando andata breve e ritorno a ritmo sostenuto. Fùorza iti!
Il gruppo partì con il Capitano in testa. Non avevano una palestra al chiuso dove allenarsi, ma solo il luogo che li aveva visti nascere e che li aveva resi quello che erano. A quella terra, a quel mare e a quel vento dovevano la loro forza.
Il vento soffiava tra la miriade di alberi delle barche. I tiranti venivano scossi con violenza inaudita e urtavano fra di loro vibrando. Il suono che ne usciva era un lamento, una nenia che sembrava provenire da un tempo lontano. Cantava la storia di eterni sconfitti dal destino che si ribellano e provano a sfidare il futuro. Cantava il dolore di un cuore di padre che su quel molo faceva volare l’aquilone del figlio.
Ora le lacrime il vento le strappava via e non c’erano più né il figlio né l’aquilone, ma dieci anime che correvano e credevano in lui. Achille in quel momento respirò e giurò a se stesso che non avrebbe tradito nessuno. Chiese perdono a suo figlio, chiese perdono a sé stesso per aver pensato per un attimo ad andare via e alla fine si mosse verso casa per chiedere perdono a sua moglie per essere un uomo, un uomo senza un braccio, ma ancora un uomo con un amore infinito per lei e per la la loro vita. Perdono a Dio per essere un padre con addosso il sogno del suo unico figlio.